Finalmente, dopo la tipica giornata "cane-spesa-lavastoviglie-lavatrice-letti-pranzo-tavola-caffè-studio" che solitamente suggerisce l'assenza di mia madre posso fermarmi a scrivere.
E scriverò della mia paura.
Di quella sensazione istantanea che sa attraversarmi la testa nei momenti più inaspettati.
E' successo poco fa, mentre sorseggiavo un alcolico caldo e dolce al gusto di caffè. Si parlava, tra amiche, dell'argomento della settimana. Purtroppo.
Il suicidio di Norman Zarcone, 27 anni, dottorando in filosofia del linguaggio all'Università di Palermo.
Ora, non so se girare pagina di fronte ad un fatto che non mi riguarda o cominciare a rivalutare il mio futuro.
Eppure guardando il Tg e ascoltando le notizie, sembrano sempre così lontane, così distanti e irreali. Notizie da un mondo parallelo.
Cose che non potrebbero mai capitare a noi.
Una ragazza viene ferita ad un occhio dalle schegge di un vetro infranto per colpo di un'arma ad aria compressa. Bari, amtab, linea 22. Ore 20,40.
Una filippina uccisa a botte da un pugile, furioso per la rottura con la fidanzata. Era la prima che si è trovato davanti. Milano.
Un poliziotto sconvolto dal licenziamento sequestra un pullman con 15 ostaggi. Sette morti. Manila.
E' la fortuna di non essere noi quelli lì.
Ecco che la soglia di tolleranza ha subito un notevole rialzo.
Quanti ascoltano queste notizie mentre pranzano?
Eppure in questo mondo malato ci siamo tutti.
Ho pensato a tutto questo, in quei pochi secondi mentre avvicinavo il bicchiere alle labbra.
Il resto l'ho pensato adesso. Il suicidio di Norman. Il mio futuro.
Sono nella fase della vita in cui le aspettative sono tutto.
La fase in cui faccio progetti, sogno di esperienze all'estero, contratti di lavoro...
Vedi anche guadagni.
Vedi anche famiglia.
Sono fantasie da studentessa. Ancora per un po' neanche laureanda.
Sono proprio quelle le prime a colare a picco quando senti una notizia del genere.
O quando ti ricordi che i ricercatori sono in sciopero.
Che l'istruzione in Italia sta diventando più scomoda del solito.
Non è paura di non farcela. Non solo. E' la paura del momento in cui cominceranno a dirtelo.
E, si sa, ammettere una cosa può farla diventare tremendamente reale.
Per questo io ho paura.
Per l'eco di disperazione che Norman si è lasciato dietro.
Per quanto è diventato tangibile, adesso, ora, il disagio di tutti quelli come lui. Il nostro disagio.
E se qualcuno obiettasse che non sono una dottoranda, che ho ancora della strada da fare prima di fronteggiare i problemi del mondo del lavoro, che la cosa, in fondo, non mi tocca perchè non la vivo, gli risponderei che non è vero.
Gli risponderei che ho un maledetto bisogno di sperare, io, che ancora ci devo arrivare.
La stupidissima necessità di guardare avanti e vederci qualcosa di diverso da un salto di sette piani...nel vuoto.
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